Noi credevamo
Regia: Mario Martone. Soggetto: Mario Martone, Giancarlo De Cataldo, da vicende storiche realmente accadute e dal romanzo omonimo di Anna Banti. Sceneggiatura: Mario Martone, Giancarlo De Cataldo. Fotografia: Renato Berta. Scenografia: Emita Frigato. Musica: Hubert Westkemper. Montaggio: Jacopo Quadri. Costumi: Ursula Patzak Interpreti: Luigi Lo Cascio (Domenico), Valerio Binasco (Angelo), Francesca Inaudi (Cristina di Belgioioso da giovane), Andrea Bosca (Angelo da giovane), Edoardo Natoli (Domenico da giovane), Luigi Pisani (Salvatore), Toni Servillo (Giuseppe Mazzini), Luca Barbareschi (Antonio Gallenga), Fiona Shaw (Emilie Ashurst Venturi), Luca Zingaretti (Francesco Crispi), Andrea Renzi (Sigismondo di Castromediano), Renato Carpentieri (Carlo Poerio), Guido Caprino (Felice Orsini), Ivan Franek (Simon Bernard), Stefano Cassetti (Carlo Rudio), Franco Ravera (Antonio Gomez), Michele Riondino (Saverio), Roberto De Francesco (don Ludovico), Alfonso Santagata (Saverio O'Trappetaro), Peppino Mazzotta (Carmine), Anna Bonaiuto (Cristina di Belgioioso), Edoardo Winspeare (Nisco), Giovanni Calcagno, Vincenzo Pirrotta (gli attori della Vicaria). Produzione: Carlo Degli Esposti, Conchita Airoldi, Giorgio Magliulo, Patrizia Massa per Palomar/Les Films d'Ici. Distribuzione: 01. Durata: 170'. Origine: Italia/Francia, 2010.
Tre ragazzi del Sud Italia, Salvatore, Domenico e Angelo, si muovono tra le ombre del nostro mito fondativo mentre i grandi eventi e le figure più note fanno da cornice. Quattro momenti diversi, costellati di personaggi e di luoghi in cui si dirama la disillusione: La scelta di aderire alla causa repubblicana e il richiamo assoluto della libertà, l'esperienza del carcere e la dialettica del potere («Domenico»), l'attentato a Napoleone III e la violenza insurrezionalista («Angelo») si raccolgono infine nel ritorno al Sud, dove la luce di «L'alba della Nazione» risveglia dal sogno e brucia gli occhi.
Noi credevamo è la storia contraddittoria e complessa della nascita del nostro Paese, narrata tramite eventi che potremmo dire secondari o, molto più allusivamente, "collaterali" visto che non offrono certo una visione edificante dell'esperienza Italia.
La prospettiva meridionalista scelta da Martone, coerente con il romanzo da cui il racconto è tratto (nota 1), descrive un movimento storico che non solo non si è realizzato a partire dal basso, inteso in senso socio-economico, geografico e culturale, ma che ha finito per lasciare irrisolti, se non esacerbare, i problemi connaturati al farsi dell'Unità. L'opera muove dunque dal Sud e ritrova le prime immagini nel 1828, quando la repressione borbonica contro gli insorti cilentani instilla nei tre protagonisti l'afflato libertario che porterà all'affiliazione alla Giovine Italia. L'insurrezione non è solo un riferimento utile per comprendere i motivi di un vissuto personale; molto più sottilmente, la sua messa in scena inaugura un particolare procedimento narrativo, che avanza per risonanze e rimbombi e trova il suo centro d'equilibrio in Domenico.
Il regista costruisce una struttura che si regge tutta su corrispondenze interne senza mancare di gettare rapide occhiate verso l'esterno. In un certo qual modo, il film si avvita su stesso e, a ogni giro della vite della Storia, a ogni assonanza tra momenti diversi, ritrova un piano di significato e un cortocircuito linguistico: ecco che l'eccidio delle guardie borboniche in apertura riflette macabro quello compiuto dai soldati piemontesi nella parte finale, contro i briganti e le camicie rosse, ecco che il grido «Lasciateli recitare», che alza all'inizio Cristina di Belgioioso a sostegno degli attori nel teatro parigino, fa ancora eco quando gli artisti fattisi combattenti scherniscono Crispi e vengono interrotti proprio da altri Garibaldini. Vi è poi il contrappunto dell'andar via a fare l'Italia e del tornare indietro quando l'Italia è fatta, monarchica. Questi piani, come cerchi nell'acqua, si stringono intorno al protagonista fino a materializzarsi al suo fianco, nella prima e nella terza parte del film, rispettivamente nei personaggi di Salvatore e di Angelo: il primo guarda in faccia la realtà e sceglie la rassegnazione, l'altro fa altrettanto ma le oppone la cecità della violenza. Scelte speculari, inconciliabili e, al contempo, ramificazioni del disinganno che lentamente s'impossessa delle immagini; al centro, come si è detto, la sorte di Domenico.
L'ambiente del carcere è sospeso e rarefatto, alcuni scherzano con una donna dalla feritoia a sbarre ma la sua immagine è sfocata: la detenzione serve a far pensare che non ci sia più un fuori. E mentre le guardie borboniche danno il via a una vera e propria guerra psicologica, i detenuti, tra cui Carlo Poerio e altri noti repubblicani, continuano a decidere, a leggere, a resistere fino a rifiutare la grazia, dimostrando così che il carcere è ovunque. In una realtà politica basata sulla coercizione, non esiste un dentro e un fuori ma solo l'alveo pietroso della dignità, il far muro di se stessi che, coerentemente, non lascia spazio a una messa in scena ricattatoria o sentimentalistica. L'ultima parte del film si porta dietro quest'atmosfera e riguarda ancora Domenico, definitosi ormai come il personaggio concettuale, il cursore che raccoglie tutti i richiami dell'opera portandoli a conclusione.
Domenico rincasa, per credere ancora, per raggiungere i garibaldini che dalla Sicilia muovono alla conquista di Roma. L'impresa si conclude disastrosamente sull'Aspromonte, ma già prima abbiamo visto la disfatta: al potere borbonico-feudale si è sostituita la dominazione di un centro su una periferia da redimere, emancipare e, possibilmente, da sfruttare. Alla narrazione della verità si è sostituita l'agiografia celebrativa, incarnata dall'inganno subito da un giovane compagno sull'innominabile morte del padre.
È l'albero «piantato con le radici malate», come dice stanca Cristina da Belgioioso, che però non è l'oggetto centrale della messa in scena. E qui sta la potenza del film, nella capacità di marginalizzare tanto la retorica nazionalista quanto la pedagogia del messaggio che alla prima viene opposta. Sarebbe stato facile costruire una contro-retorica del Risorgimento facendo un'opera epica e mitizzante, e invece, anche nell'affermazione delle stesse tesi che lo sorreggono, nonché nella consapevolezza del protagonista, c'è qualcosa di amaro e profondamente inattuale.
Martone sceglie di accordare ai guasti più profondi della storia unitaria, null'altro che poche parole, dette con la rassegnazione di chi produceva la più bella seta di tutta l'Europa e sa di aver perso tutto, più spesso non pronunciandole affatto. La verità del Risorgimento resta in bilico nel movimento sinfonico da personaggio a personaggio, scivola via e scompare sotto terra come l'olio: è detta traditrice e viene accoltellata perché inascoltabile, e allora si fa muta, come la madre di Domenico, che non parla da quando il notaio, figura cardine della burocrazia di stato, ha confiscato le terre della casata. Verità, alla fine, spaesata e terrorizzata come i familiari dei contadini uccisi (nota 2) trattenuti dai soldati ai margini del sentiero principale dove passa la carrozza della storia.
Tra le ellissi temporali e spaziali, resta lo sguardo fisso del protagonista, la sua consapevolezza silenziosa e caparbia, il rimprovero del fratello «Non dici niente?». Il punto è che dall'ultimo incontro con Angelo nel Cilento, da quel momento insuperabile, Domenico diventa una figura della disillusione, che affonda le sue radici proprio lì, dove si coglie l'esito della fratellanza tra i due suoi compagni: il figlio dei contadini e l'altro, che come lui appartiene a una famiglia ricca e istruita. La separazione insormontabile tra umili e benestanti, tra semplici e intellettuali, è il ritmo che si ripete e risuona in momenti diversi: non la fine di ciò in cui credevamo, ma la disillusione del Noi.
1 Anna Banti, «Noi credevamo», Mondadori, Milano 1967.
2 I briganti e coloro che li appoggiavano venivano arrestati o uccisi a causa della famigerata legge Pica, che prevedeva la sospensione dei diritti civili ed era stata promulgata dal parlamento piemontese per arginare il fenomeno del brigantaggio nel Meridione.
Fonte: Rivista Cineforum, n° 500, pag. 58 e 64-66